Partecipare a cosa?   Riflessioni di Mario Spada

 

Un programma del SSN per favorire l’ascolto e la partecipazione dei cittadini e degli utenti.

 

 

Le varie opzioni partecipative, di tipo antagonista, riformista, classista, istituzionale sono ormai molto numerose. Gruppi sociali, imprenditoriali, istituzionali cercano di dare lo stesso nome a cose diverse nate con finalità diverse, in modi e contesti differenti. Partecipazione è una parola onnicomprensiva con la quale si vorrebbero identificare e catalogare processi diversi che sono uniti dalla comune circostanza di discostarsi dalle   pratiche della democrazia rappresentativa.

Le teorie e le tecniche di partecipazione, anch’esse molto numerose, che sono venute dopo le azioni della società civile,  hanno cercato di capire e strutturare processi spontanei già in corso che intervenivano o interferivano sui processi decisionali guidati dai centri di potere tradizionali: dalle lotte per la salvaguardia ambientale, al rifiuto di trasformazioni urbane considerate lesive di interessi locali (sindrome Nimby- Nothing in my back yard), alle Ong attive sul piano dei diritti umani, della salute, dell’economia alternativa e cosi via.  Di partecipazione se ne parla in vario modo da più di trent’anni e forse, ancora una volta, tutto è nato dal 68. Grazie ad alcuni recenti film è in corso una rivisitazione del 68 che alla fine si conclude con un benevolo riconoscimento: è stata una rivoluzione culturale e sociale che ha contribuito in modo determinante alla modernizzazione del paese. Tra luci ed ombre, o buio pesto come nel caso dell’avventura terroristica. Il dato distintivo del 68, al di là della retorica stantia attribuibile all’inviluppo con la parte dura della tradizione del comunismo surreale, fu quello di predicare e praticare una società aperta. Questo fu il merito del 68 studentesco e del 69 operaio: dare la parola agli studenti che per la prima volta nella storia studentesca si candidarono ad essere protagonisti del loro destino; agli operai e non solo alle loro rappresentanze istituzionali (sindacati e partiti); ai braccianti, ai soldati, ai detenuti, alle donne. Dare la parola voleva dire azioni, contestazioni, manifestazioni, sia organizzate che spontanee e talvolta politicamente scorrette. Tutto è poi confluito in un grande fiume che ha trascinato con sé anche tanti detriti ma ha irrorato molti campi (economia, cultura, istituzioni, informazione, famiglia, società). Cos’è cambiato da allora? La modernizzazione ha aperto il campo a nuovi diritti, nuovi protagonismi sociali e culturali , ha visto anche risultati controversi come i contadini e le donne trasformati in operai, le periferie urbanizzate con “ catrame e cemento là dove c’era l’erba”, i diritti del lavoro e dello studio rivendicati e solo  in parte riconosciuti. Ora siamo in una situazione che qualcuno definisce postmoderna. Cosa caratterizza la postmodernità? Anzitutto la difficoltà ad utilizzare categorie dualistiche ed economicistiche come la contraddizione operai –capitale, che nel 68 /69 fu un perno centrale dell’azione di contestazione. I soggetti antagonisti sono molti di più e difficilmente classificabili, antagonismo e subordinazione si intrecciano in modo imprevedibile, l’identità sociale è cangiante e plurima,  la speranza di rinnovamento non passa più attraverso un’improbabile e non augurabile dittatura di qualche improbabile classe egemone. C’è una commistione di soggetti subalterni e antagonisti, di nuove povertà e ricchezze criminali, di conflitti urbani e ambientali, di globalizzazione neoliberista e umiliazione e economica dei paesi poveri, di malattie endemiche la cui responsabilità ultima ricade sui paesi ricchi. In tutto questo grande miscuglio è riconoscibile il carattere postmoderno dell’epoca in cui viviamo. O per dirla in altri termini il carattere complesso del mondo globalizzato. I sistemi complessi, studiati dal mondo scientifico, hanno la caratteristica di essere spontanei, disordinati, vivi, ma capaci di conciliare ordine e caos in un particolare stato di equilibrio . Gli scienziati ci dicono che c’è una differenza basilare tra il sistema chiuso meccanico e il sistema aperto complesso: quest’ultimo tiene conto degli impulsi della realtà esterna, si presenta come un modello di un’ organizzazione inesauribile che riesce ad assorbire energia dall’ambiente. L'esterno diviene essenziale, così come è indispensabile la capacità di rielaborazione che consente al sistema una vera reazione attiva. Valentina de Angelis, studiosa di sistemi complessi precisa che ”l’apertura del sistema non significa solo capacità di adattamento rispetto all’ambiente, ma anche azione trasformativa del sistema sulla realtà circostante: il sistema aperto risulta quindi il modello più generale, l'’unico capace di spiegare alcuni fenomeni complessi, di prevederne altri, di fornire criteri utili per descrivere la variabilità, anche come mezzo per sviluppare forme più evolute di stabilità e di organizzazione.”

I fenomeni complessi quale quello della globalizzazione, degli equilibri ambientali,  delle realtà urbane, sono meglio comprensibili se si interpretano alla luce del sistema aperto. Possiamo dire che la partecipazione, ovvero l’interazione dei centri di decisione con la complessità sociale ed economica è la chiave per mantenere aperto il sistema.  In altre parole per mantenere viva e potenziare  l’azione democratica. Non dobbiamo distrarci nel perseguire il filo conduttore della democrazia sostanziale:  nella società postmoderna incombe l’opzione autoritaria che può agire come grande semplificatrice   della complessità dei fenomeni: essa si fonda sulla chiusura del sistema, unificato da  informazioni predeterminate e da un uso spregiudicato dei media.

Sistema aperto vuol dire democrazia diffusa e diritto di cittadinanza riconosciuto a tutti i soggetti sociali, in particolare ai più deboli privi di rappresentanza.

Quello che nella società in via di modernizzazione si traduceva in diritto allo studio , al lavoro, in diritti delle donne ,  si estende ora ad una molteplicità di nuovi soggetti trasversali che rivendicano il diritto di cittadinanza, ovvero l’inclusione nei processi  decisionali. Il secondo Forum di Porto Alegre si è concluso nel 2002 con una dichiarazione che auspica una nuova organizzazione mondiale delle città tramite una rete per l’inclusione sociale. La posta in gioco è stare dentro o fuori, inclusione o esclusione. Dentro o fuori dal commercio mondiale per i paesi poveri, dentro o fuori le decisioni che riguardano la vita civile che si svolge in una città.

Qualcuno ritiene che il sistema sia già aperto ma i segnali che si colgono vanno in senso opposto. Negli ultimi anni i centri di potere si sono richiusi in se stessi: partiti politici, gruppi produttivi e professionali, istituzioni, hanno dimostrato di essere intimamente chiusi e autoreferenziati.

Sistema aperto vuol dire giocare a carte scoperte. Mio padre che fu un accanito giocatore di carte giocava a volte con i suoi compari a carte scoperte. Io bambino dicevo che così era più facile. Lui mi spiegò che era più difficile: ci voleva  più intelligenza, astuzia, psicologia.

Giocare a carte scoperte vuol dire rispondere a varie domande: come vengono prese le decisioni che riguardano il cittadino? Se ne conoscono le conseguenze sull’ambiente inteso nella sua globalità, naturale  e antropica? Si sono consultati i destinatari se gradiscono?  Il modo in cui si attua il programma è efficace? Partecipazione vuol dire porsi una quantità inesauribile di domande e quando si profila una risposta possibile cercare subito le possibili confutazioni.

Dove il sistema è chiuso e il diritto di cittadinanza negato nascono naturalmente conflitti rispetto ai quali scopriamo l’inadeguatezza della politica, l’inefficacia della tecnica,  il pericolo di derive armate.

Governare la complessità è dunque la scommessa di questo periodo. In termini strettamente istituzionali vuol dire sostituire al sistema chiuso del government il sistema aperto della governance.

Ma partecipazione per andare dove? In alcuni paesi anglosassoni, dove le pratiche partecipative fanno parte da tempo del bagaglio della società civile, la progettazione partecipata è stata anche utilizzata in alcuni quartieri per far valere le volontà di una maggioranza che tende ad escludere minoranze scomode. Abbiamo messo due secoli per affermare il principio democratico della maggioranza cui la minoranza deve sottomettersi, ma è democrazia compiuta? Ecco che la partecipazione deve riuscire, partendo da una valorizzazione delle risorse locali, includere anzitutto i più deboli privi di rappresentanza,   ricostruire relazioni umane e sociali, rintracciare  nessi che la globalizzazione, la mediatizzazione e il consumismo hanno reciso,  riannodare il filo di esistenze antropologicamente in bilico. La profezia di Marx sulla reificazione dei rapporti sociali si è avverata in modo definitivo: l’oggetto di consumo è diventato il mezzo principale e talvolta esclusivo per stabilire relazioni ed esprimere sentimenti. E’ consuetudine ormai che  il rapporto tra genitori e figli sia mediato da un giocattolo o un motorino che suggella un patto temporaneo di non aggressione. Siamo di fronte ad una preoccupante mutazione genetica del corpo sociale. Quello che Marx non ha potuto prevedere è l’estensione della reificazione anche agli animali domestici condizionati dalla pubblicità televisiva.

Sistema aperto dunque che sia in grado di produrre i semi della sua autoriproduzione  . Dai conflitti latenti o palesi nascono associazioni, lobby, che sulla base della sussidiarietà sociale diventano istituzioni potenti, centri di potere in grado di influenzare la vita politica.  Ed hanno tutto l’interesse a che il sistema si richiuda alle loro spalle per godere di una rendita di posizione finalmente conquistata. E i nuovi esclusi?

Nella società matura e consapevole ,postmoderna, la partecipazione è direttamente proporzionale alle inadempienze dei decisori politici e tecnici. Dove si crea un vuoto, per errori od omissioni dei decisori, quel vuoto sarà sicuramente riempito da una parte di cittadinanza che rivendica il diritto di occupare quello spazio.

Mettere sul tavolo tutti gli interessi in gioco e giocare a carte scoperte vuol dire ad esempio per le giunte e i consigli comunali accettare un confronto sistematico e non emergenziale   con le rappresentanze della società  civile, siano essi il Forum Agenda 21 o i centri sociali; per gli imprenditori edili e gli investitori di capitali  accettare il confronto con la sostenibilità ambientale e con i residenti, per i progettisti porsi tutte le  domande sulle conseguenze ambientali, sociali, economiche che può comportare un intervento prima di fare qualunque segno sulla carta, per i medici un confronto permanente con i tribunali del malato.

La società complessa è come un meccanismo delicato che ha bisogno di una messa a punto quotidiana. Con la partecipazione si profila un grande gioco a carte scoperte  che non ha nessuna intenzione di soppiantare la democrazia rappresentativa bensì di ancorarla ad una quotidiana verifica delle conoscenze, dei rapporti di forza, delle esclusioni, delle prospettive auspicabili. E non bisogna sottovalutare l’incoraggiamento che deriva alla partecipazione da alcune direttive del’Unione Europea. Fuori dal nostro paese ci si crede di più nella democrazia.

La partecipazione è un  mezzo per consentire agli esclusi di irrompere sulla scena, ma poi il confronto dev’essere a tutto campo senza esclusioni. Il tavolo costituente del Nuovo Municipio auspicato da una parte della sinistra antagonista  raccoglie solo amministratori e attori accomunati dallo stesso sentire. Qual è la soglia che separa coloro che hanno un comune sentire dagli altri? Purtroppo talora è una soglia ideologica o che separa un gruppo ristretto di amici dal resto degli attori sociali. In nome della diabolica convinzione dell’egemonia politica si può escludere una gran parte di alleati possibili. In secondo luogo c’è il rischio di autoemarginarsi dai tavoli dove si tratta di questioni di  forte impatto sociale e ambientale. Se le  attività di partecipazione si concludono con l’apertura di un tavolo di negoziazione il più delle volte è positivo. Autoescludersi dalla negoziazione perché si è contro per principio all’ urbanistica negoziata può far lieti gli speculatori . Eludere il confronto con il nemico può impedire di conoscerne le finalità ultime, le sue debolezze e la sua forza, o, nella migliore delle ipotesi, la sua disponibilità ad apprendere  le tue ragioni. La cosiddetta urbanistica negoziata è stata spesso usata per operazioni  sporche, tuttavia separare partecipazione da negoziazione può far comodo soprattutto a chi si è riservato il ruolo esclusivo di negoziatore e concede con gioia ai partecipativi la progettazione delle minuzie .

La partecipazione ha bisogno di regole, come ogni vera forma di democrazia. Alcune tecniche garantiscono il rispetto delle regole. Le tecniche sono anche conosciute dal mondo aziendale che fa della partecipazione un punto di forza del controllo di qualità. Alcune tecniche sono state trasferite dal mondo aziendale alla programmazione territoriale e si sono dimostrate efficaci. La tecnica tuttavia è utile se la partecipazione non diventa tecnicismo perché in quel caso si  perde la rotta.

All’opposto parlare di partecipazione senza indicare quali regole può ugualmente far perdere la rotta. Il bilancio partecipato di Porto Alegre ha regole precise.  L’assemblea non è il nuovo soviet. Se l’assemblea non è accompagnata da momenti di progettazione condivisa, da approfondimenti delle ragioni ultime dei conflitti, da una ricerca di soluzioni possibili, può essere uno strumento di inganno e manipolazione. Una seria partecipazione è un processo guidato, non affidato solo alla spontaneità. Partendo da una base di assoluta onestà intellettuale e trasparenza si mettono sul tavolo tutte le carte , si ricercano le soluzioni possibili, ci si ferma e si torna indietro quando vengono violati i diritti di una componente sociale o produttiva, per impostare diversamente il problema.

Certo, a volte è consigliabile irrompere sulla scena con il blocco stradale, con la protesta clamorosa. Ma questo vale fino al momento in cui è riconosciuto il tuo diritto ad essere incluso nel processo di decisione, dopo ci vuole metodo. Una lotta strenua in nome della ragione spesso nasconde la soluzione, che è dettata dalla ragionevolezza, che consiglia di rimettere  in discussione le premesse di quel progetto, di cercare di comprendere le ragioni degli altri senza accontentarsi di  una trattativa che si concluda con concessioni di seconda mano. Chi pratica la progettazione partecipata, una piccola minoranza rispetto a coloro che ne parlano, conosce quel raro momento magico in cui le diverse parti che si confrontano innescano un processo di mutuo apprendimento. Si apre solo allora l’orizzonte della progettazione condivisa e la partecipazione va oltre il misero bottino di una somma di piccole rivendicazioni da soddisfare.

Non perdere la rotta vuol dire tenere la barra verso quel punto all’orizzonte che è  un sistema sociale aperto in grado di mettere in gioco ogni giorno i rapporti di forza, capace di guardare con coraggio nei suoi angoli bui, di includere indistintamente tutti , di far partecipe la società di un destino collettivo che risvegli sentimenti di comunanza civile.

C’è spazio per molte posizioni : per una visione riformatrice che veda continuare il percorso avviato dal 68, volto a scoprire la creatività sociale e le nuove libertà  nel passaggio dal moderno al postmoderno; c’è spazio per i movimenti antagonisti che possono essere promotori di cittadinanza sociale di nuovi soggetti che sarebbero condannati all’esclusione; c’è spazio sia per processi guidati da amministratori intellettualmente onesti sia per processi di autorganizzazione sociale. Si tratta solo di capirsi e costruire, pur nelle differenze, un linguaggio comune. La rete partecipativa diffusa per un’alternativa democratica non può che trovarsi nel punto di congiunzione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, tra progetto antagonista e progetto riformatore. Batson, uno studioso di queste faccende nel 1994 diceva “   la partecipazione come la democrazia ha significato molte cose per molte persone. Le opportunità per la partecipazione sono a portata di mano ma solo se tutti coloro che sono coinvolti condividono una conoscenza e un linguaggio comune.”

Credo che lo scopo principale della fiera delle buone pratiche della partecipazione sia quello di contribuire alla costruzione del linguaggio comune.

 

 

 

24.9.03   Mario Spada